Il naturale processo di selezione di nuove risorse da parte degli uffici dedicati al reclutamento vive in Italia una fase molto critica, specchio della società indecifrabile e inafferrabile di oggi
Si moltiplicano le storie e i racconti di interi settori in ginocchio per incapacità di trovare le risorse giuste, per mancanza delle stesse, per le enormi difficoltà nel formalizzare un accordo tra le pretese dei nuovi lavoratori e le possibilità o gli standard delle aziende. Tra quello che emerge realmente e chi cavalca il trend solo per farsi un po’ di pubblicità, il fenomeno c’è ed è da trattare con particolare attenzione, perché investe aspetti critici e cronici del mondo professionale italiano, come la fuga dei cervelli e la fuga dei cervelli dei giovani, il lavoro nero, il digital skill gap, le ‘assunzioni di comodo’.
Un interessante articolo di Federico Fubini su Il Corriere della Sera raccoglie testimonianze molto significative dell’attuale mondo del recruiting italiano, tanto che, come scriviamo nel titolo, cercare nuovi lavoratori sta diventando il lavoro più difficile in Italia.
Quello che accade nella società, com’è stato per tutte le generazioni e come sarà sempre, incide molto, quindi tanto più la società è sregolata e difficilmente decifrabile, tanto più chi la vive e la interpreta troverà altrettante difficoltà a darsi delle regole, dei parametri e ad avere un giusto equilibrio tra legittime aspirazioni e mondo professionale.
“Una ragazza si era candidata come amministrativa, età sui ventidue. Avevo un’offerta e l’ho chiamata. Mi ha detto: “La fermo subito, ho passato le selezioni di X Factor” racconta Camilla Rocca, responsabile di ricerca e selezione del personale della Confederazione nazionale artigiani della provincia.
“Ci sono ordini che non riesco a chiudere per mancanza di candidati. Nessuno è adatto. Gli idraulici o i tornitori poi valgono oro, se solo si trovassero…”
Il fenomeno non investe solo i giovani, ma tutte le categorie di lavoratori. Un recente sondaggio di Eurostat ci ricorda che, comunque, in Italia chi studia, difficilmente ha anche una posizione lavorativa parallela, al contrario di ciò che accade in altri Paesi.
“Un ragazzo del ‘97 si è candidato per un posto di amministrativo-contabile — racconta Camilla Rocca — ma pretendeva il part-time per fare volontariato. Un altro, metalmeccanico, voleva flessibilità oraria per gestire il suo e-commerce. Ma qui le imprese dei dipendenti a metà non sanno che farsene”, prosegue Camilla Rocca.
Secondo Federico Fubini i lavoratori e soprattutto i giovani non stanno più al gioco, non sono pronti a calarsi in un modello di azienda, relazioni di lavoro e carriera disegnato da altri senza di loro. Come ha ben fotografato l’editorialista del Corriere:
“in Italia c’è anche una questione di numeri, incrociata a una culturale. In primo luogo i giovani oggi sono semplicemente troppo pochi. Quelli fra i venti e i trenta per ogni anno di nascita sono poco più di mezzo milione: la metà dei baby boomer che ora vorrebbero attirarlo nelle loro imprese. Di quei giovani quasi un terzo — il doppio di una generazione fa — prosegue negli studi perché aspira a una laurea e diventa troppo qualificato per inserirsi nelle piccole e medie imprese che restano la spina dorsale del Paese. In più da una decina di anni se ne vanno all’estero almeno in 120 mila all’anno. Resta dunque una base demografica minima da cui le aziende artigiane possono attingere e, appunto, il problema è anche culturale: i ragazzi decidono di fare l’università o partire all’estero — o entrambe le cose — perché non si identificano più con quel modello produttivo familiare, ostinato, creativo e di provincia”.
In questi ultimi tempi si moltiplicano le iniziative per invertire la tendenza, ma, dati alla mano, il fenomeno continua ad espandersi e sarà un ostacolo molto difficile per il processo di recruiting delle aziende futuro, perché, come si evince dal nostro approfondimento di oggi, il problema è culturale, sociale e riguarda trasversalmente tutte le generazioni.